11 maggio 2016

PERCHE’ I PACIFISI IN OCCIDENTE NON MANIFESTANO CONTRO ASSAD.


Non importa che Assad abbia demolito la Siria, non importa che abbia distrutto un’intera generazione, che abbia trasformato i siriani in un popolo di mendicanti, coperti di fango e stracci agli angoli delle nostre strade, annegati sulle nostre coste. Non importa che proprio come i suoi tanto criticati oppositori resista solo grazie al sostegno esterno, che non riesca a vincere questa guerra neanche con l’appoggio di Hezbollah, della Russia, dell’Iran e di centinaia di mercenari: non importa che stiamo mantenendo al potere uno che in realtà non ha potere. Non importa: perché Assad è laico. E questa, per noi, è l’unica cosa che conta.
Perché l’obiettivo dei negoziati in corso in questi giorni a Ginevra non è mai stato raggiungere una tregua, ma una riduzione delle ostilità. Che può significare due cose. Per alcuni è un modo di sostenere implicitamente Assad, attraverso dei cessate il fuoco su scala locale che gli consentono di concentrarsi sulle aree più strategiche, una a una, una battaglia alla volta. Anche perché escludono imprecisati “terroristi” e gli lasciano la libertà di bombardare chiunque.
Ma per altri, i negoziati di Ginevra sono un reale tentativo di raggiungere la pace. Basato sull’idea che da entrambi i lati ormai le milizie sono troppe e troppo frammentate perché sia possibile raggiungere un accordo su scala nazionale, l’idea che nessuno, né Assad né i ribelli, abbia più la capacità né il consenso per governare il paese, e che sia quindi necessario costruire un’alternativa: convincere i siriani a tornare e a riprendersi la Siria.
Per questo la società civile internazionale ha un ruolo fondamentale: perché è indispensabile rafforzare la società civile siriana. Aiutarla a organizzarsi. Con quello stesso tipo di iniziative in cui oggi attivisti di ogni dove sono impegnati insieme ai curdi, e ai palestinesi, agli iracheni, ai tunisini, agli afgani e agli egiziani. Invece i siriani sono soli. Completamente soli.
Perché? Non giriamoci intorno: sono soli perché se in Siria si dovesse votare probabilmente vincerebbero gli islamisti. E noi siamo per la democrazia solo se i suoi cittadini sono come noi. Si potrebbe dire che in base all’esperienza degli ultimi anni gli islamisti di solito governano male, e che quindi per non averli al potere è sufficiente lasciarli governare perché siano sconfitti alle elezioni successive.
Ma il problema è più profondo. Il problema è la nostra totale incapacità di confrontarci con chi è diverso. Di confrontarci davvero, oltre la retorica del multiculturalismo, delle differenze, della tolleranza: il problema è la nostra totale incapacità di confrontarci con gli islamisti. E non mi riferisco ad Al Qaeda, ovviamente, ai jihadisti. Mi riferisco a tutti gli altri. A quei mille movimenti islamisti di cui si nega la presenza, la rilevanza stessa nella società, figuriamoci un ruolo politico.
Hanno spesso idee lontane dalle nostre, è vero. Ma è una battaglia culturale. Una battaglia di idee, di stili di vita. E a volte, certo, anche di diritti e libertà. Ma come pensiamo di vincerla? Con lo sterminio? O forse provando a convincere gli altri delle nostre ragioni?
Ma costa fatica. Costa fatica entrare davvero in questi paesi, frequentarne i bassifondi, la fame, le disuguaglianze, l’emarginazione, il rancore, invece che le élite anglofone e francofone, così colte, così tranquille, così simili a noi. Costa fatica misurarci con chi, con la sua diversità, rimette in gioco i nostri valori, le nostre azioni: con chi mette a nudo le nostre imperfezioni.
Costa fatica scoprire che le olgettine di Berlusconi non sono un esempio molto convincente di emancipazione, costa fatica ricordare che, come diceva Norberto Bobbio, “non è mai la nostra libertà contro la loro oppressione: è sempre questione di diverse forme di libertà, diverse forme di oppressione”. Costa fatica lasciare che la verità venga a galla e costa cinquecentomila morti.

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